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Capitolo 2: Il matrimonio della madre

Il 23 aprile 1930 Dio portò una forza della natura nel mondo. Raccolse una piccola manciata di elementi abbondanti in tutto il vasto Universo, Carbonio, Idrogeno, Azoto, Calcio, Fosforo e Potassio, aggiunse gocce d’acqua e, dopo 9 mesi di gestazione nel grembo di mia nonna Grazia, presentò al mondo mia madre. La piccola, seconda di quella famiglia, è venuto al mondo a polmoni pieni. Urlava incessantemente, rivaleggiando con i rintocchi delle campane della chiesa principale che, proprio quel giorno, risuonavano nella notte il saluto dei morti, in lode di un cittadino defunto. Tre tocchi acuti: Tééiiiinnn, Tééiiiinnn, Tééiiiinnn…; uno serio, Tóóóuóónnnnn… annunciando al cielo l’arrivo di un’altra anima di Felitto.

Mio nonno Giovanni, uomo colto, lettore dei classici e figura obbligata nel personale amministrativo del comune, registrava lui stesso la sua più giovane con l’espressivo nome Faustina. In quei tempi, di tanta miseria e di un’Italia abbandonata al suo destino nel dopoguerra, dove le funzioni amministrative non garantivano cibo in tavola, lusso e sfarzo solo di nome.

La Prima Grande Guerra aveva infranto l’illusione umana nei centri più ricchi e civilizzati, anche se non potevano immaginare in quel momento l’orrore e la distruzione di massa che la Seconda avrebbe portato. Tuttavia, in quelle regioni sperdute e lontane del Cilento, persistevano le favole e le superstizioni portate dalle ombre della notte e dalle feconde immaginazioni. È così che la piccola Faustina è cresciuta, ascoltando le storie vere confermate dei suoi zii e nonni, nati all’epoca in cui fate e streghe camminavano in mezzo a noi. Tutti lì sapevano che il suo bisnonno materno aveva avuto una vita agiata perché, una volta, quando si imbatté in tre belle ragazze che dormivano nude in riva al fiume, le coprì di paglia, provando compassione per loro, stese lì, punite dal freddo. Erano fate! Improvvisamente si sono svegliati e, riconoscenti, hanno iniziato a chiamare il ragazzo che, spaventato e vergognoso, ha iniziato a correre. Finché uno di loro non gli toccò la spalla e lui, sbilanciato, rotolò giù per un burrone, svegliandosi solo poche ore dopo. Non è mai mancato il cibo in casa sua!

Dal carattere forte e dal cuore estremamente gentile, mia madre correva sempre per gli stretti vicoli di pietra, da una casa all’altra, desiderosa di aiutare gli anziani indeboliti dal tempo e dalla fame, dalla tristezza e dalla solitudine, offrendo una mela, un sorriso, una speranza…

Quando iniziò a frequentare la scuola elementare, l’unica possibile, fu portata a credere in un’Italia fiera e potente, discendente di un impero romano ricco e dominante, capace di costruire un nuovo futuro con ordine e disciplina, amore per la patria, nero magliette e discorsi di grandezza di un piccolo leader, nella statura fisica. A un naufrago non si chiede di preferire il colore della boa, basta che la mantenga sulla linea di superficie.

E tra i sogni di una nazione e la brutale realtà degli uomini, mia madre è arrivata alla seconda guerra mondiale, nel fiore dei suoi nove anni, vivendola cogliendo le cronache che uscivano dalla bocca di chi ci stava dentro e tornò spezzato, di corpo e di anima. Il momento più vicino alla guerra in quella regione fu quando un aereo da combattimento tedesco si schiantò sui campi di ulivi, lasciando solo una bomba disarmata, senza pilota sopravvissuto. Uno zio e due cugini, spinti dall’urgenza della fame, tentarono di smontare il manufatto nella speranza di raccogliere la preziosissima polvere da sparo al suo interno. Sono esplosi con esso attraverso l’aria, avendo i loro corpi raccolti in pezzi per un raggio di 100 metri.

In tempo di guerra, in tempo di pace, la gioventù trova le vie che conducono alle passioni. Innocenti all’inizio, si evolvono in sentimenti travolgenti di quelli capaci di spostare i continenti. Mia madre aveva un certo debole per i deboli e i diseredati e questo, a quel tempo, non mancava. Si è innamorata duramente e intensamente, come fanno tutte le ragazze tra i 9 ei 14 anni. Bastava uno sguardo, una parola dolce, una richiesta di aiuto. C’erano molti Antonio, Francesco e Donato. A tutti rivolgeva pensieri, illusioni e sogni di una vita migliore, con figli, tanti figli e ben pasciuti.

Finché un giorno non si è imbattuta in questo giovane dagli occhi chiari, capelli folti e lo sguardo da attore di cinema, anche se fino ad allora non ci aveva mai messo piede. A pensarci bene, una star del cinema non dovrebbe essere così basso, con le orecchie flosce e una faccia da cane pietoso, ma in qualche modo lui ha acceso in lei una possibilità. Non restava che trovare un modo per avvicinarsi e lei ha trovato una via d’uscita molto creativa. C’era un fosso, un buco nel terreno di 1,50 m, tra un piccolo fienile abbandonato e una stalla per asini, sul sentiero tra la scuola e la sua casa. Il mio futuro padre passava ogni giorno da questo stesso posto per recarsi alla falegnameria dove lavorava come apprendista aiutante. Un caldo pomeriggio d’estate, mia madre lasciò cadere strategicamente uno dei suoi taccuini nel fosso e iniziò a piangere per la sua sfortuna. Mio padre, che era di passaggio, offrì prontamente aiuto. Prima ancora che si chinasse a raccogliere il taccuino, un’infestazione di pulci lo assalì furiosamente, coprendogli le gambe. Mia madre rise mentre mio padre saltava su e giù e si batteva le mani sulle gambe per sbarazzarsi di quei dannati insetti.

Certamente correva molto più veloce di lui, che aveva promesso di ucciderla se l’avesse raggiunta! Ma gli è bastato vederla entrare in casa sua e ha cominciato a girarci sempre più spesso, non per commettere un delitto, ma per iniziare una storia d’amore (?) durata quasi 70 anni. In breve tempo iniziarono a frequentarsi, come allora, con una distanza minima garantita di 3 metri e la compagnia permanente di una madre, un padre, una sorella, una zia, un cugino o quant’altro fosse in grado di impedire più di tanto qualche sembra.

A vederlo così, sembra essere qualcosa di molto romantico e leggero, ma in realtà era un arrangiamento di sopravvivenza. Mio padre cominciò a visitare tutti i giorni la casa dei suoceri, come un ospite a cui viene offerto quel poco che ha e dei panni lavati. Come ricompensa mia madre ebbe il privilegio di tessere di più, cucire di più, lavare, stirare, cucinare e fare tutto quello che già faceva con più intensità. Il suo ragazzo, ora fidanzato e futuro marito, rafforzato e padroneggiato il mestiere, ha aperto un’attività in proprio. Mamma allargò anche i suoi orizzonti, portando sulla testa le assi di legno segate dalla montagna e portate in falegnameria per fabbricare mobili e bare.

La festa nuziale durò 7 giorni e vide invitati tutti i duemila abitanti. Tutti, come sempre, hanno collaborato come hanno potuto, portando uova, latte, grano, carne, olio, vino e frutta… Tutto si è sommato, unito e mescolato, ha sfamato e saziato tutti, che hanno ballato e cantato, augurando agli sposi un felice futuro. Mia madre ci credeva, non immaginando che tra qualche anno avrebbe intrapreso un viaggio di 14 giorni in nave, alla ricerca del marito che l’aveva lasciata con due figlie in braccio, la più piccola delle quali il padre non ha mai visto nascere. Sbarcò nel porto di Santos, in una terra straniera che amava davvero, non con dolci parole dipinte di rose, ma dando il meglio di sé, con sudore, lacrime e sangue.

CaMaSa

Capitolo 1: L’infanzia del padre

Erano tempi difficili, come sono difficili tutti i tempi quando hai solo le tue braccia e una piccola parte di terra per mantenere la tua famiglia. Mio nonno, Carmine come me, era un uomo della terra, tagliato alle fatiche e con una famiglia numerosa. Chissà come i Santangelo siano finiti in quella regione montuosa d’Italia, ma comunque era l’unico lì e ha iniziato la sua eredità.

La parte di terra che gli apparteneva era in un piccolo paese, Felitto, provincia di Salerno, a sud di Napoli, una regione montuosa con minuscoli feudi sparsi alle sue pendici. La parete ovest di uno di questi monti è tagliata dal fiume Calore, formando un tumulo a un terzo della sua altezza, separato da un profondo precipizio a strapiombo. Lì, affacciato sulla vallata, sorse questo borgo costruito dalle abbondanti e immense pietre a disposizione, protetto da strategiche torri di fronte e dalla rupe sullo sfondo. I signori vivevano nei castelli, serviti e nutriti da sudditi che lavoravano la terra nei campi intorno alla città e fornivano protezione ai paesani nei periodi di invasione. Dal Medioevo al periodo tra le due guerre qualcosa è cambiato, ma non abbastanza perché i poveri smettano di essere poveri e perché i ricchi diventino meno ricchi.

Per passione o per mancanza di cultura, i più umili fecero diversi figli, riproducendosi in quantità. Mio nonno ha compiuto sei anni mentre la salute di mia nonna lo ha permesso, tanto che quando è andata incontro alla vita eterna, le ha lasciato una scala di bambini che vanno dai 2 agli 11 anni! Un uomo senza moglie e tanti figli non può sfamare sette bocche e, tra le soluzioni più tristi, scelse di affittarne una, nella speranza che rimanesse del cibo in tavola e che, con un po’ di fortuna, l’avrebbe trovata da qualche altra parte, in famiglia, in un’altra città, in un’altra regione, la fine della sua fame.

Così fu mio padre, il secondo della progenie, dall’alto dei suoi 9 anni, portato di là senza scelta, a prendersi cura dei maiali di coloro che, da quel momento in poi, per sua forza e volontà furono padroni. Il viaggio è lungo, aggirando i piedi della montagna lungo la strada stretta e tortuosa, fatta di carri solo fino alla prima curva. Poi, lontano dai tuoi occhi, a piedi. Alla fine di una giornata di viaggio, esausto, stanco e affamato, è arrivato in questa strana terra, dove un ragazzo impaurito e magro è un po’ al di sopra dei cani, ma molto al di sotto dei maiali. Questi sono davvero importanti, danno carne e profitto, hanno un grande valore. Di notte sono sorvegliati, protetti dalle intemperie e dai predatori, di giorno vengono liberati alla ricerca di un complemento al magro bucato che i loro padroni danno loro. Il ragazzo li affianca giorno e notte, come se uno di loro fosse, senza perdere di vista neanche un minuto, uno dei quaranta che compongono lo staff.

La vita tra maiali e porcili puzzolenti non favorisce lo sviluppo di un bambino. Cibo pessimo, indifferenza e tanto meno abbandono. Ogni casa ha la sua principessa e non c’era differenza. Vivevano il padre, la madre, il nonno e la nonna, i tre bambini brutali, poco più intelligenti di maiali, uno zio e la figlia minore, nel pieno della sua bellezza a quindici anni, con un’altezza di 1,42 m e 137 chili. Viziata e golosa, viveva per mangiare e disprezzava gli animali e chi se ne prendeva cura. Trovò in quel ragazzino il passatempo preferito per riempire i suoi pigri pomeriggi. In uno di quei pomeriggi, dopo aver pronunciato per ore e ore tutte le bestemmie del suo repertorio, si dedicò alle molestie fisiche, picchiettando le orecchie di mio padre. Uno dei colpi ha colpito il nervo, ha irritato la bestia, la rivolta, la rabbia e il risentimento sono esplosi. Si voltò, affrontò il gigante e con gli occhi e il pugno chiusi, colpì il seno destro della ragazza. Ha preso il colpo meno per il dolore, più per la sorpresa e l’umiliazione. Lanciò un urlo seguito da un grido sofferente e ininterrotto, senza lacrime, pieno di rabbia e odio. Forte, così forte che tutti entrarono terrorizzati, immaginando la disgrazia che aveva colpito la loro piccola principessa. Arrivato lì e valutata la situazione, l’adrenalina si era calmata e alleviata dalla bassa gravità, ma profondamente colpita nel suo onore e dignità, fu deciso per una punizione esemplare al principale colpevole della situazione.

È stato un pestaggio epico! Ore e ore di Bungt e Bangt, Bangt e Bungt, dove ognuno in quella casa può esprimere la propria frustrazione. Mio padre ha fatto il possibile per mantenere la sua dignità e il suo orgoglio, come qualsiasi altro ragazzo. Ha pianto, si è scusato e ha implorato perdono a squarciagola. Più colpivo più faceva male, e più colpivo e più urlavo e più faceva male. Credo che nemmeno mio padre abbia mai rubato niente!

Sicuramente tutto quel dolore e quella sofferenza non sarebbero rimasti impuniti e la vendetta è arrivata come una tempesta distruttiva, sotto forma di maiali affamati che razziavano campi di zucche e cetrioli bassi. Distrussero tutto in poco tempo, tanto che non rimase intatta nemmeno una pianta fino all’arrivo di tutti. Il piccolo calcolò l’entità del pestaggio che sarebbe arrivato e tra la morte certa e il freddo della notte in arrivo, con le sue tante ossessionate paure, preferì correre il rischio.

Se fosse tornato indietro lungo la strada sarebbe stato catturato subito. Avrei dovuto affrontare la montagna spaventosa, piena di pericoli, suoni e strane figure. Andava avanti all’infinito, mosso dalla forza di chi lotta per la vita, a ogni colpo, a ogni passo, a ogni soffio d’aria. Andò avanti per ore e ore, affamato, assetato, assonnato e dolorante. Ha scalato ogni montagna e ha raggiunto la cima sotto i primi raggi del sole. Vide il Calore serpeggiare laggiù e ne fu sicuro: era salvo!

Quello stesso giorno, nel pomeriggio, l’uomo e il figlio maggiore bussarono alla porta della casa di mio nonno. Hanno interrogato, offeso e maledetto. Hanno minacciato e giurato vendetta. Mio nonno, impassibile, li ignorò del tutto, voltò loro le spalle e andò incontro al maestro falegname, dove mio padre imparò il mestiere. Un giorno, chissà, con quello, come dicevano da quelle parti, Facceva L’America (Farebbe l’America), e suo figlio guadagnerebbe un sacco di soldi!

E così è stato. Peccato che non sia andato anche a scuola, dove avrebbe imparato la sottile differenza tra Nord e Sud America.

CaMaSa

Roubil

Roubil

Tão logo o mundo se curvou à nossa prodigiosa capacidade tecnológica de criar um sistema eleitoral de urnas infalíveis, demos um passo à frente de todos os sistemas jurídicos nunca antes elaborados na história humana, abolindo o crime de roubo. Esse superestimado sétimo mandamento, escrito a fogo em pedra por Deus, deixou de ser contravenção, da noite para o dia, por força do exemplo vindo de cima, em todo território nacional. O país passou a chamar-se Roubil, pátria de todos os roubileiros!

Graças a Alex, o Supremo, numa única canetada que uniu a elite jurídica, política, financeira, midiática, carcerária e zumbi de todo o país, roubar foi liberado, passando a ser ato tão corriqueiro e normal quanto comer. Irmão rouba de irmão, pai rouba do filho, patrão rouba do funcionário, cliente rouba do empresário, todo mundo rouba de todo mundo. De uma hora para outra milhares de ladrões inocentes, injustamente presos como bandidos, foram descondenados e postos em liberdade. A criminalidade diminui quase que totalmente, havendo até quem argumentasse sobre a inutilidade da polícia nesta nova era. No entanto, apesar de que alas mais radicais queriam inocentar também os assassinos, já que o ato de matar implica em retirar a vida de alguém, manteve-se a condenação pois ao roubar a existência do outro, não acrescia-se o infrator de objeto substancial e concreto. Sequestros eram casos especialíssimos pois ao tomar para si um ente querido, um filho por exemplo, de alguém, era sim o sequestrador beneficiado por um bem materialmente palpável, ainda que se tratasse de um simples ser humano. No entanto, eram raros os casos já que havia sido eliminada a necessidade de exigir resgate, uma vez que não era mais necessário dinheiro para se obter qualquer coisa. Bastava roubar!

Como se pode ver as mentes jurídicas divinamente privilegiadas tiveram muito trabalho para estabelecer essa nova ordem, esse novo Pacto Social. Evidentemente houve resistência. Alguns descontentes, homens e mulheres talhados no ferro e fogo da honestidade, incapazes de um leve furto, uma propina, uma mínima trambicagem, resistiram bravamente a essa onda de pilhagem e picaretagem, mas aos poucos, um a um, iam soçobrando no lodaçal de sacanagem, até que o último bravo, depois de centenas de vezes roubado e humilhado, faminto e sem perspectiva roubou uma maçã do amor de uma criança que a lambia.

O amor, sim o amor estava no ar. Esse período revolucionário era tão intensamente cheio de alegria e esperança, de norte a sul, leste a oeste, os desonestos cantavam e dançavam, pilhavam e saqueavam, destruindo tudo em seu caminho como uma ensandecida nuvem de gafanhotos humanos. Não era só a comida das quitandas, mercearias e supermercados, mas roupas de grife, joias e iPhones, 19, 20 e 21 Pro! Roubava-se gasolina nos postos e, quando não se tinha carro ou moto, roubava-se um veículo. Todos absolutamente felizes e empanturrados até a goela. O próprio Paraíso na Terra…

Mas em pouco tempo os estoques acabaram. O produtor não precisava produzir, mesmo porque se produzisse era roubado. O comerciante não precisava comprar e vender, só precisava ser roubado. Não havia mais energia elétrica, água e esgoto, serviços essenciais e hospitalares. Ninguém mais aprendia pois não havia escolas. Não havia salário! O país rumava a passos firmes para o colapso e, estranhamente, os países vizinhos antes alinhados com os rumos políticos e ideológicos, fecharam suas fronteiras por terra, por mar e por ar. Passaram a perceber o perigo que imigrantes roubileiros, habituados a esses conceitos extravagantemente libertários, representavam para suas populações e, principalmente, à ordem e passividade do povo, que os mantinha encastelados no poder. Por conta disso, um aliado histórico como Cuba reatou com os Estados Unidos, com quem estava rompido desde 1959, em busca de proteção!

Cada vez mais isolado e sem produção alguma, o Roubil em pouco tempo estava entregue às hordas de famintos liderados por facções armadas até os dentes. Os gestores da nova ordem foram sumariamente fuzilados e substituídos por novos líderes que eram imediatamente substituídos por novos líderes mais bem armados, numa sucessão de carnificina que fazia vergonha aos animais mais sanguinários da Terra. O país ficou retalhado em milhares de pequenos feudos em guerra permanente uns contra os outros. Não havia inocência, só dor, terror e morte. O sonho de uma humanidade livre da condenação pelo roubo, inspirada pela grandiosa verdade reveladora de que “roubar um celular para tomar uma cervejinha…” não era crime, precisava, para sobreviver, de sua expansão a todos os continentes, a cada país, cidade e vilarejo da Terra.

Os países vizinhos, apoiados pelas potências mundiais, invadiam avidamente o país, cientes das riquezas naturais disponíveis. Os roubileiros eram presa fácil, desorganizados, destruídos moralmente e abatidos. Argentina, Uruguai e Paraguai meteram-se numa guerra sangrenta, disputando o Sul. Mais uma vez o Paraguai não conseguiu levar suas fronteiras até o Atlântico. Bolívia, Peru, Colômbia e Venezuela partilharam o butim amazônico, enquanto a França tomava todo Norte e Nordeste através da Guiana Francesa. China e Estados Unidos dividiram entre si todo o resto.

Foi tudo muito, muito rápido. Em poucos meses o Roubil foi de um país do futuro ao ostracismo histórico. Porque as Constituições podem ser refeitas e reelaboradas, mal usadas e rasgadas, mas existem Leis naturais que definem a sobrevivência humana na Terra e no Universo, e estas não podem ser subvertidas. O homem não está separado da Natureza senão pelas suas ideias e pensamentos. É parte dela. É ela. 

CaMaSa

Cleto

Ele era o 7° filho de uma família que já contava com seis meninas e todos sabem que nesse caso ele deveria ter nascido um lobisomem. Mas de lobo ele não tinha nada. Estava mais pra cordeiro. Não o de Deus. Era manso de verdade, quase bobão, resultado da imensa quantidade de amor fraternal despejado sobre ele. As irmãs o receberam como um boneco para brincar, beijar, abraçar, lavar, passar talco, trocar a fralda, vestir saia e blusa, enfeitar com colares, pulseiras e anéis… Para elas foi uma grande novidade, ele era diferente, tinha algo a mais. Entenderam também que depois dele a cegonha não daria mais as caras por ali. O pai ficou radiante, como quando o time do coração vencia o campeonato. Quando isso acontecia o radinho de pilha não era jogado com raiva na parede. Ficava feliz, pimpão, saltitante, carinhoso… Exibiu com orgulho desmedido o rebento nu para a vizinhança. Parabenizaram, comemoraram com muita cerveja e pinga. Voltou para casa bêbado e caiu desmaiado na cama. A mãe agradeceu a Deus. Estava cansada de parir.

Como a mãe chamava Cleide e o pai Toninho, puseram-lhe o nome de Cleto, numa auto homenagem pobre e sem graça. Cletinho ia das tetas da mãe para as mãos ávidas das irmãs. Passava de uma para outra numa ordem hierárquica da mais velha para a mais nova. Geralmente chegava na última todo cagado e mijado. São as agruras dos caçulas! O mesmo acontecia com as roupas, sapatos e bonecas de pano. Pobres, elas não podiam sonhar com uma boneca de porcelana ou de plástico, com olhos azuis de contas coloridas. As roupas, presente de alguma tia ou madrinha, já de segunda ou terceira mão, eram descoradas filha a filha, penduradas no varal, cosidas e remendadas centenas de vezes, chegando na mais nova brancas e esgarçadas. Quando ganhavam uma boneca de alguma prima mais abonada, a pobre passava por um processo de desconstrução anatômica cirúrgica. Acolhida como uma joia de imenso valor pela irmã mais velha, ia perdendo os cabelos, os olhos, braços e pernas, conforme passava para a próxima irmã, chegando à última somente um cotoco rabiscado, feio e sem graça. O irmão parecia ser mais resistente e durável. No início era muito frágil e inerte. Mamava, dormia e cagava. Depois, pouco a pouco, foi ficando mais forte e ativo, se mexia e se movimentava. Reagia aos estímulos. Chorava quando era beliscado. Mas gritava pra valer quando tinha fome.

A Fome, com “F” maiúsculo, morava naquela casa. Os dias sugando o leite aguado da mãe terminariam e ele seria mais uma boca em busca de comida. Aos poucos a novidade ia perdendo o brilho para se tornar um concorrente privilegiado pelos pais. Quando tinham a barriga cheia, usavam-no para brincar e passar o tempo. Era muito divertido irritar e judiar do irmãozinho que não tinha como se defender daquelas meninas. Ora o tratavam bem e com carinho, ora maltratavam e batiam, sem que a mãe percebesse. Estava sempre cercado de atenção, sempre havia uma delas de sentinela, para o bem ou para o mal. Eventualmente era largado num canto, como um brinquedo velho que já não desperta interesse. Gostava da companhia da solidão, imerso em seus primeiros pensamentos, tentando entender o significado das coisas que lhe aconteciam, do vento nos cabelos, do calor do Sol em sua pele, da rudeza do pai, da distância da mãe e da crueldade das irmãs. O pai era sua única referência masculina. Morava na roça, numa pequena casa de madeira distante do centro de Salete, pequeno vilarejo do interior de Santa Catarina, isolada no tempo e no espaço, onde a modernidade do papel higiênico ainda era desconhecida de quem limpava-se com sabugo de milho. Para as primeiras letras havia um pequeno convento, onde irmãs devotadas à Fé ensinavam os primeiros rudimentos às meninas da região em troca de algum alimento. Não aceitavam meninos. A mãe de Cleto deixou crescer seus cabelos e vestiu-o com um vestido das irmãs. Assim passou ele toda a infância, até que os sinais da adolescência ficaram mais volumosos e evidentes do que simplesmente um buço de uma menina feiosa.

Certa vez, voltando para casa numa tarde fria e chuvosa de julho, separou-se das irmãs, distraído por uma colméia de abelhas zunindo no alto de um pinheiro. Pôs-se a escalar o tronco reto e escorregadio, ignorando os chamados das irmãs que seguiam sem esperá-lo. Não lhes deu atenção, focado em seu objetivo de obter o mel que escorria dos favos lá em cima. A barriga roncando vazia era sua maior motivação. A cada palmo avançado, maior era o desejo e a esperança. Um pouco mais, um pouco mais… Viu-se saboreando o líquido dourado e doce, dedos lambuzados e escorregadios. De repente, sentiu a primeira ferroada em sua nuca, ardida e dolorida. Resistiu sem soltar as mãos, até que sentiu a segunda e a terceira. Choveram abelhas zangadas sobre ele. Teve que soltar uma das mãos para espantá-las. Desprendeu-se do tronco da árvore, perdeu o equilíbrio e despencou pelo ar até bater a cabeça no chão duro, de terra roxa, lá embaixo. Ficou ali inconsciente por um bom tempo, livre da dor das picadas, pelo menos até acordar. Já era noite alta então, ele fez um esforço para pôr-se de pé e, mesmo com a cabeça girando, viu que não havia quebrado nenhum osso. Retomou o caminho para casa amuado, deixando o mel saboroso para suas donas. O caminho, que a princípio lhe era familiar, foi se tornando cada vez mais estranho. As sombras da noite produziam cenários fantasmagóricos e assustadores, confundindo-o sobre as melhores opções a seguir. Perdeu-se e, ao invés de ir para casa, seguiu na direção oposta, rumo ao centro da aldeia. Antes mesmo de chegar até as franjas da pequena vila, deparou-se com três vultos à beira do caminho. Eram meninos como ele, entretidos em acender um cigarro de palha que haviam surrupiado de algum adulto. Não perceberam que ele se aproximava e, quando o viram a poucos passos, pularam assustados vendo aquela assombração envolta num lençol branco esfarrapado!

Cleto, não menos apavorado, superou sua imensa timidez e pôs-se a falar-lhes, explicando quem era e que estava perdido, precisando de ajuda. Os meninos eram da sua idade e naturalmente desconfiados. Levaram um tempo até entender o que era aquele outro garoto, magro e maltrapilho, vestido com roupa de mulher. Ainda puros e sem maldade, compadeceram-se dele e resolveram ajudá-lo. Conhecedores da região, pelas pescarias e caçadas, logo identificaram o lugar onde deveria ser a sua casa e puseram-se a caminho, contando estórias engraçadas sobre as suas proezas ao novo, e bem estranho, amigo. Questionaram seus cabelos longos e suas vestes, inapropriadas para um menino. Ele era como um deles, falaram, e deveria usar calças como todo homem. Bombardeavam-no com aventuras e desventuras, afirmações e perguntas para as quais ele não tinha respostas. Sentiu uma energia diferente fluir-lhe pelas veias, forte e ardente, como um bezerro que se reconhece touro. Sentiu a pele despegando de si, como uma cobra que troca a capa, deixando um saco vazio para trás. Compreendeu que era um homem, diferente de suas irmãs, e esse era seu destino. Beliscou-se para ver se ainda estava dormindo, caído no chão, sonhando. Não, era real, como a vitalidade que emanava dos seu companheiros, ainda moleques, mas com um futuro bem definido. Chegou em casa no meio da noite escura. Os meninos o deixaram na porteira de ripas e voltaram saltitantes e felizes para suas casas. Ele atravessou a pequena horta à frente da casa, subiu o alpendre e abriu a porta de mansinho. O pai, a mãe e as irmãs estavam em volta do pequeno lampião tremeluzindo sua luz amarela e fraca. Tentaram falar mas a voz morreu em suas gargantas quando olharam em seus olhos. Aquele não era mais o filho e irmão, era outro.

Ele assumiu a responsabilidade que lhe cabia e cuidou da família. Casou uma a uma as irmãs, deixando a cada enlace a casa mais vazia. Cada uma delas partia para algum lugar distante dali, em busca de seus sonhos de família. Deixavam endereço, ele escrevia, mas nunca recebia resposta. Nem mesmo quando o pai adoeceu e morreu, levado pela cirrose do fígado. Sobrou-lhe a mãe, cansada e frágil, única companhia. Doente, passava os dias deitada na cama. Ele a alimentava, banhava e a mantinha aquecida, até que ela dormiu uma noite para não acordar mais. Enterrou-a ao lado do pai, colocando uma cruz ao lado daquela mais antiga. Juntou os trapos, negociou a pequena propriedade, porteira fechada, com um comerciante da cidadezinha e partiu com uns poucos trocados em busca de outros ares. Foi de carona, na boleia de um caminhão até Florianópolis e de lá subiu num ônibus para São Paulo. Na metrópole de então, viu-se rodeado de multidões mas ainda mais perdido e sozinho. Adaptou-se rapidamente por necessidade e conseguiu um trabalho de entregador no mercado municipal. Sua função era entregar ovos recém-chegados nos restaurantes movimentados do centro da cidade. Caminhava a pé quilômetros por dia, de domingo a domingo. Raramente o patrão lhe dava um dinheiro para uma entrega por condução, bonde ou ônibus. Somente quando algum dono de restaurante explodia irado ao telefone, aflito para atender a freguesia, o chefe o chamava de lado e ordenava que fosse voando até o estabelecimento da Rua de Tal. Ele, então, saltava para dentro de um coletivo com as bandejas de ovos branquinhos. 

Naquele dia ele entrou afobado no ônibus, com as mãos ocupadas pela carga delicada, e não pôde manter-se firme de pé quando o motorista arrancou bruscamente. Cleto foi lançado para frente e viu os ovos voando pelos ares como passarinhos, desesperado e indeciso entre salvar a carga ou o nariz que ralaria no chão de metal liso. Antes de se esborrachar no chão, foi contido por um anteparo salvador bem no meio do corredor. Viu-se aninhado num corpo macio e perfumado, de um anjo que estava ali só para salvá-lo. Encaixado nesse pedaço de paraíso por três eternos segundos, amou aquela moça ali mesmo como jamais o fizera antes, e jurou que com ela se casaria. Teve que esperar que ela acordasse, para somente então perguntar o seu nome. Ela, entre assustada e encantada, respondeu que seu nome era Ana.

CaMaSa

Ana

A jovem Ana tinha um sonho. Uma casa cheia de crianças rechonchudas e coradas. Nasceu para ser mãe e para isso era necessário encontrar a pessoa certa. Sua mãe criou 6 filhos, a avó 12 e a bisavó 18! Gerações de mães, no sentido pleno da palavra, totalmente dedicadas aos filhos e ao lar. Essa equação necessita de um bom marido, de muitos predicados e poucos vícios. Ela sabia que não era tarefa fácil, mas nada a impediria de tentar. Poupou-se de namoricos e aventuras inconsequentes, preservando-se para aquele que se encaixaria em seu sonho tão bem quanto nela. Não faltaram pretendentes, pois ela tinha seus dotes. Magrela de menina, tomou corpo e forma já na adolescência, projetando a futura parideira, uma fêmea preparada para os futuros rebentos. Os cabelos eram castanhos tão claros que douravam à luz do Sol. O olhar era sereno, profundo, como o tom castanho, quase negros, dos seus olhos. Nenhum detalhe lhe escapava quando analisava um possível pretendente. O jeito de falar, de rir, de tossir ou de piscar. Observava o andar aproximando ou afastando, o alinhamento dos ombros, o pender da cabeça. Como bebiam, comiam, lambiam o sorvete ou cuspiam o caroço da mexerica. Não lhe importava a beleza, o físico ou a simpatia. Esquadrinhava por inteiro, dissecando cada um deles como um sapo de laboratório. Sabia que encontraria.

Passava os dias entre os estudos e o aprendizado doméstico. Cozer e coser, limpar e varrer, cerzir e servir eram tão importantes quanto somar e dividir, subtrair e multiplicar. Ia aos bailes e festas por insistência da mãe das irmãs e, quando ia, nunca dançava, apenas observava a elegância, o ritmo e a malemolência. Tudo era indício de um possível candidato, escondido num passo, numa mesura, num sorriso de canto do olho ou da boca. Certa vez pensou ter encontrado. O rapaz aproximou-se com delicadeza e num gesto ousado estendeu a mão em sua direção, suplicante, para uma dança. Ana surpreendeu a todos, esticando a mão na direção do moço, levantando-se para dançar. A bandinha local deu uma engasgada na melodia mas retomou apressadamente o ritmo para não deixar passar a oportunidade. O casal girou pelo salão, o rapaz dançava bem, circulando entre os demais dançarinos, postos ali apenas para compor o cenário. Quando a música parou, no exato segundo que durou a entrada da próxima, ela deu as costas ao moço e voltou para seu lugar. As irmãs, primas e amigas a rodearam, mortas de curiosidade. “O coração não bateu mais forte”, ela disse, e dela não tiraram mais nada. Esse era o sinal que lhe daria a certeza. Um pulsar mais intenso, o sangue correndo mais rápido, fervendo, a falta de ar e o arrebatamento. Nada menos que isso a faria aceitar alguém com quem compartilhar sua carne, sua alma, sua vida.

Certa tarde de verão, refrescando-se com as irmãs num sorvete de limão na pracinha da cidade, sentiu através de uma brisa calorenta um perfume adocicado, quase enjoado, à sua esquerda. Deparou-se com uma cigana, sem saber porque pensou assim, já que a mulher trajava elegantemente um tayer verde-água justíssimo, com uma camisa de seda branca e um lenço num tom verde escuro correndo pelo pescoço. Bateu os olhos nos sapatos de bico fino, combinados com a bolsinha a tiracolo. Tinha os cabelos loiros jogados para trás, sem nenhum fio solto. Lembrou Catherine Deneuve! Por um momento pensou estar diante dela. A mulher dirigiu-se a ela, ignorando o movimento da sorveteria ao redor. Tomada pelo encantamento, Ana estendeu-lhe a mão num gesto cortês e amigável. A mulher rejeitou sua mão direita e tomou a esquerda, girando a palma para cima. Estudou-a por alguns instantes, riscou com a unha bem esmaltada vermelho carmim as linhas ainda levemente marcadas pelo giro do tempo e pôs-se a discorrer sobre seu futuro. Via-a longe dali, na capital, trabalhando em um grande magazine. Conheceria o grande amor da sua vida num momento de muita dor e sofrimento, mas, fez uma longa pausa soltando um suspiro que congelou o ar e arrepiou sua espinha. Ana sentiu frio, muito frio, enquanto a mulher atirava sobre si um conselho: – Melhor não ter filhos… Tomou o sorvete das mãos de Ana, virou-se e desapareceu na próxima esquina.

Ana precisou de algum tempo para voltar à Terra. Suas irmãs disparavam uma saraivada de perguntas sem respostas. Não tinha certeza se aquilo havia acontecido ou não. As irmãs falavam da velha cigana, de cabelos brancos e dentes dourados, vestida de andrajos coloridos que havia roubado seu sorvete. Ela foi se recompondo aos poucos e achou melhor não contestar, guardando aquele breve delírio em segredo, com suas incertezas e dúvidas. Nunca falou a ninguém sobre o que ocorrera, mas manteve-se alerta, para confirmar, ao longo de sua vida, a veracidade dos prognósticos. Ansiou pelos aspectos positivos e temeu pelos negativos, rechaçando-os de tal maneira que quase os apagava da memória. Sem êxito! Eles voltavam em sonhos e pesadelos, no meio do nada, ao longo do cotidiano.

Seja como for, deu-se o momento de deixar a casa dos pais, as irmãs, primas e amigas, deixando para trás a cidadezinha que cabia na palma da mão. Partiu para São Paulo, capital, para ajudar uma tia nos serviços da casa, ampliar os estudos e conseguir um emprego. Sobrou muito pouco para estudos e emprego, já que o trabalho doméstico é infinito numa casa onde moravam os tios e seis primos, todos em idade escolar. Estava decidida a suportar a lida, queria vencer na cidade grande, sem voltar para trás. No fundo, tinha esperança de encontrar o seu grande amor, como lhe disse a tal mulher cigana, marcando a ferro e fogo com suas doces palavras de ilusão. Suportou mais desaforos e golpes do que jamais imaginara, amadurecendo para a vida, como todo mundo, certamente, tem que crescer. Entre as poucas folgas do lavar a louça, lavar os lençóis, passar as roupas, esfregar o chão e fazer a comida, conheceu a vizinha da casa ao lado. A dona Benta tinha uma filha, Chiquinha, que trabalhava no Mappin, no centro da cidade. Ficou sabendo por elas que havia uma vaga aberta para moças, no departamento de cosméticos. Ana entusiasmou-se com a possibilidade e perguntou aos tios se poderia tentar essa colocação? Disseram-lhe que sim, mas que se tivesse que trabalhar em período integral, deveria colaborar com as despesas da casa e cuidar dos afazeres domésticos durante a noite para continuar morando ali. Ana concordou sem nem pensar e foi com Chiquinha no dia seguinte ao encontro do seu primeiro emprego.

Ana acordou com uma fisgada no pé, mais precisamente no dedão do pé direito. Durante vários dias correu pra todo lado naquela casa varrendo, esfregando e faxinando. Usou o tempo todo um tamanco velho, duro e apertado, encavalando os dedos e encravando as unhas. Viu seu dedo inchado, com a borda da unha socada na carne, forçando uma ferida. Não teve tempo para si. Correu para a cozinha e preparou o café da família. Não queria dar motivo de arrependimento aos tios, que podiam encontrar alguma razão para que ela não fosse à entrevista de emprego. Ferveu o leite, coou o café, fritou os ovos e descascou as frutas. Cortou o pão em fatias e passou a manteiga. Esperou ansiosa todos terminarem para lavar a louça e guardar os talheres. Terminou tudo num piscar de olhos e correu para o seu quartinho. Tirou o vestido novo da mala e vestiu-se rapidamente. Calçou os sapatos de salto alto e sentiu que eles haviam encolhido. Mais provavelmente seus pés haviam inchado. Deixou de lado o incômodo e foi ao encontro da vizinha que a aguardava no portão. Andou, meio que manquitolando, até o ponto de ônibus e subiram no primeiro coletivo, em direção ao centro. Lá chegando, foi apresentada ao gerente que fez uma dúzia de perguntas e lhe deu algumas folhas de formulário para preencher com seus dados. Já estava empregada! Passou o dia correndo atrás de uma vendedora veterana da casa que lhe deu todos os tipos de incumbências. Subiu e desceu escadas, carregou pacotes, roupas, tecidos, linhas e fitas. Não teve tempo para um copo d’água e, quando terminou o dia, estava completamente destruída e desfigurada. Foi ao toilete e tirou os sapatos dos pés ardentes. O inchaço da unha era agora uma bola enorme de pus, prestes a se romper. Doía de olhar. Calçou cuidadosamente os sapatos porque não poderia voltar descalça para casa. Saiu da loja vagarosamente, com vontade de chorar, e buscou o ponto de ônibus para retornar.

Deixou passar o primeiro, o segundo e o terceiro. Era hora do rush e todos voltavam para casa no mesmo horário. Os coletivos estavam lotados e achou melhor aguardar um mais vazio. Subiu no próximo que estava bem mais vazio, mas sem lugar para sentar. Manteve-se de pé, temerosa, segurando firmemente nos apoios dos bancos, uma mão de cada lado. Duas paradas depois viu subir um rapaz alto e desengonçado, mas simpático. Esqueceu-se das suas dificuldades e dores podálicas e pôs-se a esquadrinhar o rapaz com suas habilidades costumeiras. Ele devia ser pelo menos um palmo mais alto que ela, magro mas forte, cabelos castanhos e olhos azuis assustados. Sem dúvida por conta dos dois engradados de ovos que carregava, um em cada mão. Absorvida pelo inusitado da cena, acordou do devaneio com o forte solavanco que o motorista dera no veículo ao arrancar do ponto. Ela agarrou-se no susto aos bancos, de frente para o corredor, um pé à frente e o outro, da unha encravada, para trás. Quando abriu os olhos viu dúzias de ovos bailando no ar em câmera lenta, com o rapaz sendo arremessado ao encontro dela, sem freio. Parou nela, encaixado em sua maciez juvenil, rosada e perfumada. Ficaram por 3 segundos colados, até que um raio de dor lancinante e insuportável avisou ao cérebro dela que aquele vulcabrás 43 bico largo estava pousado sobre seu dedão do pé! Ana desmaiou nos braços de Cleto e, quando acordou, não sentia mais dor alguma.

CaMaSa