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L’atmosfera era tesa e pesante. Erano presenti mio nonno Giovanni, la sorella di mia madre, zia Onorina, e suo marito, Antonio Rizzo, che lavorava in Germania. Mia nonna Grazia piangeva e singhiozzava forte in un angolo della stanza, sorretta dalla sorella maggiore di mio padre, zia Veneranda. Seduto, a ruminare pensieri e parole sconnesse c’era mio nonno paterno Cármine, affiancato dalle sue figlie, Élida e Anna. Vincenzo, il più giovane dei fratelli di mio padre, era in Venezuela a lavorare come muratore. Antônio era in Brasile, ma da lì non si avevano notizie da molto tempo! Padre Benedetto era già lontano, aveva compiuto la sua missione.

Mia madre era appoggiata allo stipite della porta in cima alle scale, con un’aria smarrita e lontana. Sui gradini, giocando innocentemente, c’erano le mie sorelle, Rachele e Grazia. La conversazione tra i due ha attirato l’attenzione di mia madre, che per un attimo l’ha portata via, vedendosi bambina e spensierata. Guardava con affetto le sue figlie, come se fosse una di loro.

Rachel era carina, calma e rilassata. Aveva i capelli lisci e scuri, le guance rosee. Non sapeva se avevano quel tono naturale o se erano il risultato dei pizzicotti affettuosi che tutti si impegnavano a darle. Mia sorella accettava queste manifestazioni sempre rassegnata, incapace di emettere un pigolio. Dove era posta, rimaneva, concentrata su se stessa o su qualsiasi attività manuale che le capitasse tra le mani. A quel tempo, con 4 o 5 anni, ero già abile nell’uncinetto.

La piccola Grazia, magrissima e bionda, è stata un terremoto! Agile, saltellante, irrequieta, era l’esatto opposto di sua sorella. Aveva sempre bisogno di due paia di occhi su di lei, giorno e notte. È nata senza la presenza di suo padre, non che questo avrebbe fatto una grande differenza, ma ha finito per creare un rapporto paterno con mio nonno Giovanni, che era un uomo raffinato e sensibile, dai modi pacati. Con lui mia sorella si è calmata, si è sforzata di capirlo ed è riuscita ad imparare le prime lettere ei primi numeri, così difficili da assimilare nella scuola delle suore. Viveva malizia, rovesciando lattine, rovesciando il cibo sulla tavola, calpestando i fiori in giardino, scavalcando il mucchio di vestiti bianchi, lavati e stirati, e facendoli cadere per terra. Non era cattiva. Aveva ereditato dal padre un genio malizioso e irrequieto.

Il padre delle tue ragazze… Ricordava il giorno del matrimonio. La cerimonia in chiesa condotta da padre Benedetto, in latino. Il coro, prima cantando una musica sacra pomposa, poi terminando con una melodia leggera, morbida, persino allegra. Il suo sì imbarazzato, espulso da un colpetto nella pancia. Risate in chiesa. L’imbarazzo di voltare le spalle all’altare, percorrere la navata centrale, sorridere alla gente. Le grida di esaltazione alla porta e il corteo che segue gli sposi fino alla piazza centrale, dove ad attendere gli sposi e gli invitati ci sono tavoli improvvisati con il meglio che la bontà del loro cuore vi ha depositato. C’era anche la musica, le belle canzoni napoletane che risollevavano gli animi nonostante i tempi difficili.

Mamma pensò e valutò le sue opzioni. Erano passati 4 anni da quando lei e papa si erano svegliati quella mattina con la decisione presa, la valigia piccola e logora piena, con qualche capo di abbigliamento, una mezza dozzina di piccoli attrezzi, un po’ di formaggio, un po’ di grano, un po’ di dolore e un po’ di speranza. Nulla era certo, come i voti d’amore giovanili, ardenti, volatili, insicuri.

All’interno della casa la temperatura saliva e scendeva mentre mia nonna piangeva e imprecava, incolpando il cielo e la sfortuna. Raggiungerebbe un altissimo picco di dolore e sofferenza e crollerebbe subito dopo, in uno stato di catatonia. Nonno Giovanni si lamentava in silenzio, sapendo di non poter prendere una decisione per sua figlia. Ciascuno deve portare la propria croce. Gli altri mormorarono sommessamente, prepararono il caffè e attesero una soluzione che, qualunque essa fosse, nessuno avrebbe voluto affrontare.

La piccola Grazia saltò sopra la sorellina seduta sul gradino, cadendo addosso alla madre che li osservava da un volo in alto. Prese in braccio la bambina, la quale, con le sue manine sul viso della madre, disse: – Mamma, non piange…

Che dolore! Che ira! Se fosse rimasta, a 23 anni, la sua vita sarebbe stata segnata per sempre nel suo piccolo paese, come le vedove di guerra che non ricevevano i corpi dei loro mariti per seppellire il passato e iniziare una nuova fase della vita. Avrebbe vissuto con l’ombra di un ritorno, isolata, esclusa, come chi soffre di una malattia contagiosa. Se partisse, probabilmente lascerebbe il suo mondo, i suoi parenti, il suo cuore, la sua vita. Avrebbe affrontato la distanza, una terra straniera, che non parlava la sua lingua e non capiva la sua sofferenza, il dolore della separazione. Se rimanessi, le ragazze non avrebbero un padre. Se me ne andassi non avrebbero nonni, zii e zie, cugini e tutti quelli che li hanno amati come fossero propri.

All’epoca, per mantenere le figlie, oltre a lavorare nei campi, seminare, raccogliere, curare gli animali, lavorare in casa, cucire fuori, aiutare la sorella, aveva trovato lavoro per il governo, portando pietre addosso dirigersi verso i lavori di ricostruzione delle strade cittadine. Non avrebbe mai immaginato che questo lavoro di 6 mesi le avrebbe fatto guadagnare una pensione più avanti nella vita, pagata dal governo italiano, più di quanto il governo brasiliano avrebbe pagato per 35 anni di lavoro.

Nel soggiorno, tra le urla e gli ululati strazianti, si discuteva già di documenti, biglietti, valori, preparativi, logistica dei trasporti. Comunicazione con i parenti ivi stabiliti, possibilità di alloggio, rientro o meno. Come quando muore qualcuno ma la vita si impone e va avanti, c’erano voci pratiche e lucide, che cercavano di valutare la situazione dai pro e contro per la madre, le figlie, le più vicine che sarebbero rimaste qui, le perdite e i guadagni. Ci sono stati momenti di accusa, di puntare il dito verso i responsabili di tutto, di quello e del futuro. E, tra le urla, abbracci di scuse, di conforto, di conformazione.

Mia madre ha guardato negli occhi la sua bambina in braccia, nel profondo, e ricordó suo marito, quando uscivano insieme, guardarla, su quella stessa scala, in un modo così intenso e strano, così diverso e urgente. Lui parlava degli suoi sogni e desideri, nella penombra dell’inizio di una calda notte, mentre si avvicinava lentamente, con la bocca parlante e danzante. E poi molto velocemente, alla velocità della luce, la baciò ardentemente. Lo spinse forte, si voltò e corse su per le scale, sbattendo la porta dietro di sé, il cuore che le batteva forte per la vergogna e il piacere. Non ha parlato con mio padre per 3 mesi, ma quel momento ha definito chi era lui, chi era lei.

Improvvisamente, si è svegliata dai suoi sogni ad occhi aperti, è entrata nell saloto e di fronte a tutti quelli che la guardavano attentamente ha detto: – Ho già deciso. Vado in Brasile.

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